La terza vita di Grange Copeland, Alice Walker
Editore: SUR
Traduzione: Andreina Lombardi Bom
Il cuore di Grange, per Ruth, non era un organo dentro il suo corpo, era il tremito nella sua voce quando cantava.
Georgia, Stati Uniti. Il mezzadro di colore Grange Copeland, mosso dalla disperazione ma soprattutto dai debiti e da un’indole smodata, lascia la moglie e il figlio Brownfield per andare al Nord, il tanto idealizzato Nord, a cercare fortuna. Alla morte della madre, il figlio di Grange, Brownfield, precipita nello stesso baratro del padre – l’alcool, un lavoro poco appagante, un fallimento dopo l’altro, la povertà che sfoga abitualmente su Mem, sua moglie, un tempo maestra della contea di Baker e adesso magra ossuta e con i denti “guasti” per via delle botte e degli insulti che il marito scaglia su di lei e sulle loro figlie.
Anni dopo, il vecchio Grange Copeland, con l’ennesima sconfitta sulle spalle e la consapevolezza che anche il Nord è pervaso dai soprusi e dalle ingiustizie, torna in Georgia e scopre che la situazione non è cambiata. Brownfield è in carcere per l’omicidio della moglie e Grange, fallito come padre, troverà il suo riscatto facendo il nonno e prendendosi cura della nipotina Ruth, una delle cinque figlie di Brownfield. Sarà proprio la piccola E Ruth a fargli scoprire quel senso di giustizia, di candore e soprattutto di famiglia che il vecchio mezzadro non aveva mai provato in vita sua.
Leggendo La terza vita di Grange Copeland, il romanzo d’esordio di Alice Walker, sono tante le cose che rimangono impresse. Sicuramente la storia, straziante e cruda, di questa famiglia di mezzadri che sembra non toccare mai il fondo; il corpo delle donne: da quello pronunciato, seducente e affamato di Josie e Lorene al corpo minuto, esile e sfiorito di Mem che, per quanto fragile, sorregge con grazia e resilienza il peso di cinque figlie e dei fallimenti di Brownfield. E poi c’è la violenza, quella fisica ma soprattutto quella emotiva e verbale, quella che trasforma e uccide Mem, molto più dell’estremo colpo di fucile tirato dal marito. Walker racconta uno spaccato della Georgia segregazionista con una voce diretta e senza filtri, che non si dimentica facilmente grazie soprattutto alla lingua di questa scrittrice: dal lessico ai dialoghi, dall’inglese delle piantagioni a quello delle tenute dei bianchi, la lingua è parte integrante del romanzo, anzi, forse è un personaggio a sé, un’entità che sorregge la storia e che diventa strumento per sottolineare quell’indistruttibile differenza tra Nord e Sud, tra bianchi e neri, tra ricchezza e povertà. La lingua dei personaggi è colloquiale e tende alle sgrammaticature, soprattutto nella parlata di Brownfield, che non è mai andato a scuola e non sa leggere né scrivere, aspetto fondamentale che nel romanzo torna più volte. Il linguaggio trasuda la disperazione che pervade i protagonisti, Grange, suo figlio ma soprattutto Mem. All’inizio della storia, la protagonista femminile forse più riuscita di tutto il romanzo si esprime meglio di chiunque altro nella contea. Ma poi la situazione cambia.
Davanti alla gente la metteva in imbarazzo. Appena lei apriva bocca lui si voltava con un inchino verso i loro amici, che grazie al cielo parlavano una lingua comprensibile all’orecchio umano, e diceva: «Zitti, adesso parla la mia signora, noialtri stupidi negri la dobbiamo stare a sentire!» Mem si faceva pallida per la vergogna e da quel momento in poi cercava di tenere la bocca chiusa. Ma a Brownfield non andava bene nemmeno il silenzio. Lui voleva sentirla parlare, ma parlare come quella che era, una negra senza speranza che si prendeva la sua razione di mazzate ogni sabato notte. Voleva che lei sembrasse una che se lo meritava di stare con lui.
La trasformazione, o meglio, il declino di Mem avviene proprio attraverso la lingua. E questa è forse una delle cose più dolorose di tutto il romanzo, e che Walker riesce a trasmettere con una trasparenza tale da lasciare il lettore inerme e impassibile, una pagina dopo l’altra.
Quando la lingua di un romanzo è così importante, la traduzione gioca più che mai un ruolo fondamentale. Andreina Lombardi Bom, che di Walker aveva già tradotto Il colore viola, pubblicato sempre da edizioni SUR, ha fatto un lavoro impeccabile. La lingua, proprio come nell’originale, è viva, i dialoghi sono ben riusciti, sempre credibili, e i personaggi vivono attraverso il linguaggio.
1.
“I wish we lived in Philydelphia,” he said.
“Well, we don’t.” That was his father.
Quanto mi piacerebbe stare a Fillidelfia», disse.
«Be’, non ci stiamo». Questo era suo padre.
2.
[…]
“Uncle Silas like to talk about his automobile,” said Brownfield, his lips bumbling over the word. It was his uncle’s word, a city word. In the country they always said car. Some people still called them buggies, as if they could not get used to a conveyance that did not use horses.
«A zio Silas gli piace parlare della sua automobile», disse Brownfield, con le labbra che s’impappinavano sull’ultima parola. Era la parola usata da suo zio, una parola di città. In campagna dicevano sempre macchina. Alcuni le chiamavano ancora carrette, come se non riuscissero ad abituarsi a un veicolo che faceva a meno dei cavalli.
3.
[…]
“I wish we had a automobile like that!”
“Well, we don’t.”
“No, we don’t,” said Margaret.
[…]
“We ought to be thankful we got a roof over our heads and three meals a day.”
«Che bello se ce l’avevamo anche noi un’automobile come quella!»
«Be’, non ce l’abbiamo».
«No, non ce l’abbiamo», disse Margaret.
[…]
«Dobbiamo ringraziare il cielo che c’abbiamo un tetto sulla testa e tre pasti al giorno».
Bello il modo in cui la traduttrice ha reso l’errore grammaticale “Uncle Silas like” con la dislocazione a sinistra “A zio Silas gli piace…” e anche l’utilizzo dell’indicativo a discapito del congiuntivo in “Che bello se ce l’avevamo anche noi un’automobile come quella!”. Efficace anche l’utilizzo della particella pronominale “ci” nei dialoghi. Tutti aspetti che attribuiscono veridicità ai dialoghi. Nelle battute che seguono, la lingua diventa il tramite per raccontare la situazione socio-politica della Georgia:
“You could‘ve gone,” said Grange softly, to his wife.
“I don’t know nothing about up Norse.”
“You could learn.”
“Naw, I don’t believe I could.” There was a sigh in her voice.
[…]
“I didn’t know nobody asked us to go. I want to go up Norse.” His cousins said only the greenest hicks from Georgia said “Norse” like that.
«Te ne potevi andare», disse piano Grange alla moglie.
«E che ne so io di come si campa su al Nord».
«Potevi imparare».
«Naa, mi sa proprio di no». Nella sua voce si avvertiva una specie di sospiro.
[…]
«Mica lo sapevo io che ce l’avevano chiesto di andare. Io ci voglio andare su al Nord». I cugini dicevano che solo i campagnoli più ignoranti della Georgia dicevano «su al Nord» in quel modo.
La traduttrice qui ha deciso di rendere la storpiatura “Norse” con l’espressione molto colloquiale “su al Nord”, che oltre a restituire al testo la caratteristica dell’oralità, sottolinea ancora una volta la lontananza tra Nord e Sud di cui il testo è pregno. Bello anche il “mica” che traduce l’errata doppia negazione inglese.
Tra le rese più riuscite, poi, c’è senz’altro il “filliputtana” pronunciato da Ruth per tradurre “sonnabit” e “signorina puzza al naso” per “Miss high-‘n-mighty”.
Insomma, una traduzione che restituisce al testo quel senso di rabbia, impotenza, ingiustizia, commozione e confusione che non si può non provare di fronte a un’autrice come Alice Walker – e, in generale, di fronte alla letteratura.