L’ospite e altri racconti, Amparo Dávila

Non dimenticherò mai il giorno in cui venne a vivere con noi. Mio marito lo portò con sé di ritorno da un viaggio.
All’epoca eravamo sposati da quasi tre anni, avevamo due bambini e io non ero felice.

Inizia così «L’ospite», il racconto di Amparo Dávila, la scrittrice messicana scomparsa lo scorso aprile, che dà il titolo alla raccolta pubblicata da Safarà nella bella traduzione di Giulia Zavagna. La trovo azzeccata come scelta, perché in questo racconto è racchiusa la poetica, e forse anche l’intento, della “maestra del cuento”, come è stata definita dal Los Angeles Times.
Questi racconti sono terrificanti e magnetici al tempo stesso, è vero, ma sono anche incredibilmente veri: indagano la natura umana nel profondo, le ossessioni che tormentano l’essere umano e che spesso lo portano a vivere una realtà parallela, surreale e spaventosa. Leggendo questa raccolta mi è venuto in mente Il sonno della ragione genera mostri, il quadro di Francisco Goya, e credo che i personaggi di Dávila siano così: umani, impauriti e tormentati. Proprio come il protagonista di «Frammenti di un diario», che passa le sue giornate a salire la scala immaginaria del dolore finché il suo passato non torna a fargli visita; o la giovane María Camino, che si lascia rapire ogni notte da una creatura misteriosa; o ancora il protagonista di «Fine di una lotta», che un giorno, dal giornalaio, vede sé stesso passeggiare a braccetto con una bella donna e non riesce più a distinguere il vero dall’illusione. E infine la protagonista di «L’ultima estate», che deve fare i conti con una gravidanza tardiva e inaspettata, ma soprattutto con la difficile accettazione del tempo che passa inesorabile portandosi via non solo la bellezza, ma anche le certezze più salde e profonde.
Dávila racconta quindi la realtà umana attraverso l’irrealtà e l’immaginazione, e lo fa non solo ricorrendo ad ambientazioni e personaggi surreali e oscuri – anche se molto credibili – ma anche a una prosa sospesa, ritmata ed estremamente ambigua, che lascia il lettore in balìa di possibili interpretazioni e soprattutto di possibili identificazioni nei personaggi. Quello che fa realmente paura, quindi, non sono le creature misteriose e mostruose di cui ci racconta la scrittrice, ma quello che realmente rappresentano per l’uomo, e quindi per noi: paure, ossessioni, drammi.

Lei. Mi perseguita ogni sera, senza tregua, per ore e ore, a volte tutta la notte, so che è lei, ricordo i suoi occhi, li riconosco, sporgenti, inespressivi, so che vuole farla finita con me e distruggermi del tutto, non dormo più, da tempo non oso dormire di notte, significherebbe restare in balia di lei, passo le ore sveglia, ad ascoltare tutti i rumori del giardino, tra i tanti riconosco il suo, so quando arriva, quando si avvicina alla mia finestra, quando spia tutti i miei movimenti; la minima disattenzione e sarei perduta, chiudo le finestre, controllo le porte, le controllo di nuovo, non permetto a nessuno di aprirle, perché chiunque potrebbe entrare e arrivare a me. Sono notti interminabili, la sento così vicina, una tortura che mi consuma poco a poco fino al giorno in cui la mia resistenza sarà esaurita e mi distruggerà…

E se al lettore italiano arriva tutto questo, il merito è anche e soprattutto di Giulia Zavagna, che ha usato una lingua ipnotica, ritmata e mai banale che, credo, rifletta in pieno lo spagnolo messicano di Dávila. I dialoghi sono reali, credibili ed efficaci, e la cultura messicana è vivida e pulsante nel testo. Quest’ultimo aspetto è significativo soprattutto quando si ha di fronte una scrittrice come Amparo Dávila, che per troppo tempo non è stata protagonista degli scaffali delle librerie italiane.

 

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