Un altro mondo, James Baldwin
Editore: Fandango
Traduzione di Attilio Veraldi
Avrebbe voluto salvarla, avere in sé la forza per salvarla e renderle meno dura la vita. Ma solo l’amore può compiere il miracolo di rendere una vita sopportabile, solo l’amore, e anche l’amore non basta. Lui non l’aveva mai amata. Si era servito di lei per scoprire qualcosa di se stesso. (pag. 425)
Il mondo in questo libro è organizzato come una scacchiera: ci sono il bianco e il nero. E, come nel gioco degli scacchi, i due colori si oppongono in una battaglia strategica. Sono tante le dinamiche a muovere le pedine: l’ambizione, la sofferenza, la vergogna, il senso di colpa… ma soprattutto l’amore. Un amore tiranno, però, che spesso appare meschino. A volte è persino ingannevole, si camuffa dietro a un’apparente amicizia. Oppure è la causa di traumi profondi che portano le persone a sentirsi depresse, confuse e sole. L’amore grava sull’animo dei personaggi, complica le loro relazioni e mette a rischio la loro serenità rendendoli incredibilmente fragili. Un altro mondo è un libro immenso e non mi riferisco al numero di pagine (ben 458, ma si leggono davvero velocemente!). È una vera e propria cosmologia in cui orbitano diversi personaggi, protagonisti e comparse, con ruoli ben precisi: l’uomo di colore che soccombe a una società crudele; la donna umiliata che tenta invano di riscattarsi; il marito di successo che perde di vista i propri affetti; la donna benestante che tradisce la sua moralità; la ragazza ferita e arrabbiata con il mondo intero; il sognatore squattrinato alla ricerca di un’identità; l’affascinate rubacuori che scappa e si allontana da tutti per proteggere sé stesso. In questo libro-cosmo si avvicendano una miriade di storie, che avvengono in spazi e tempi diversi. James Baldwin accosta a una trama principale una serie di filoni paralleli per raccontare la storia da varie angolazioni. Tutto parte da Rufus Scott, un batterista jazz nero, che si muove disinvolto da un locale all’altro nella New York degli anni Sessanta. È proprio un bell’uomo, Rufus, con un gran talento e un carisma fuori dal comune. Non a caso è stimato da tutti i suoi amici: Cass e Richard, la coppia perfetta, Eric che lo ama intensamente e fugge a Parigi per il peso di non essere contraccambiato e soprattutto il suo migliore amico Vivaldo, un aspirante scrittore irlandese a cui è legato come un fratello. I genitori, poi, contano su di lui; più di tutti la sorella Ida che stravede per il fratello maggiore. Durante una serata frizzante nel Greenwich Village, Rufus incontra Leona – una ragazza bianca del Sud, in fuga da un passato doloroso. Assetata di libertà e con la voglia di ricominciare, si è appena trasferita in città, per lasciarsi tutto alle spalle. Rufus rimane colpito dalla storia di Leona, dai suoi occhi lucenti e maliziosi, dai suoi modi esitanti come quelli di «un animale selvatico che, non sapendo se avvicinarsi alla mano tesa o fuggire, continua a saltellare di qua e di là». Anche Leona è subito attratta da Rufus, dal suo colore, dai suoi gesti seducenti e da quel suo «sorriso mezzo storto». Tra i due c’è una forte intesa e la scintilla divampa, incendiando i loro corpi con irrefrenabile passione. Stanno bene insieme, si fidanzano. Ma il destino gioca contro di loro, trasformando la loro relazione in qualcosa di terribile: una passione malata, in balia della rabbia e dell’ossessione. Rufus è sempre più convinto di essere un burattino nero alla mercé della sua ragazza bianca. Questo sospetto – di non essere altro che l’oggetto del desiderio – lo farà precipitare in un baratro senza via di uscita. Sempre più vulnerabile e assillato dai dubbi, Rufus annegherà i propri dispiaceri nell’alcool e cadrà preda di New York, una città divisa tra due poli cromatici in combutta tra loro: il nero di Harlem e il bianco tutt’intorno, separati solo da un fiume. In una fredda notte autunnale, decide di farla finita. Si addentra in questo confine immaginario buttandosi dal George Washington Bridge e con la sua morte condanna tutti a un destino caratterizzato dalle stesse avversità. Perché, infondo, bianchi e neri soffrono allo stesso modo. La sola cosa che li accomuna è il dolore.
E guardate che questo è solo l’inizio.
James Baldwin è uno scrittore eccezionale, basta leggere le prime pagine per rendersene conto. Da grande conoscitore dei sentimenti umani, l’autore statunitense ama soffermarsi sui risvolti psicologici dei suoi personaggi e delle situazioni che vivono. Sa come catalizzare l’attenzione dei lettori su discorsi a lui particolarmente cari, come il pregiudizio, la disuguaglianza e le discriminazioni di ogni genere. Il colore della pelle in primis, che traspare da ogni dialogo, da ogni riflessione del romanzo. Influenza il giudizio altrui, il tenore di vita e l’equilibrio interno delle persone. Esattamente come l’amore, che viaggia di pari passo con l’odio e la vergogna, ma che viene analizzato in tutte le sue forme. L’omosessualità è, infatti, il secondo grande pilastro su cui poggia la trama del libro. La scrittura di Baldwin è accurata e poliedrica, perché descrive gli episodi da vari punti di vista. Ed è, allo stesso tempo, sublime perché riesce a elevare anche le cose più banali. Con il suo linguaggio poetico e sensuale, Baldwin fa emergere la bellezza dagli ambienti più sordidi, la trova negli attimi più scabrosi o negli atteggiamenti inopportuni. Come in questo caso, dove vediamo un Rufus ormai degradato urinare per strada. Nonostante il gesto miserabile, questo breve paragrafo è bellissimo da leggere. Qui risiede la potenza straordinaria di Baldwin:
For a moment he thought he would faint with hunger and he moved to a wall of the building and leaned there. His forehead was freezing with sweat. He thought: this is got to stop, Rufus. This shit is got to stop. Then, in weariness and recklessness, seeing no one on the streets and hoping that no one would come through the doors, leaning with one hand against the wall he sent his urine splashing against the stone-cold pavement, watching the faint steam rise.
* * *
Per un attimo si sentì svenire per la fame e si appoggiò al muro del palazzo. Il sudore gli si era gelato sulla fronte. Basta così Rufus, pensò. Questa merda deve finire. Poi, stanco e imprudente, visto che sulla strada non c’era nessuno e nella speranza che nessuno uscisse dal locale, poggiò una mano contro il muro e schizzò l’urina contro la pietra fredda del marciapiede, osservando il lieve vapore che si levava.
Anche le descrizioni, in particolare dei luoghi, sono splendide da leggere: così ricche di dettagli ed evocative, hanno un effetto plastico sul lettore. Spesso vediamo la città durante i viaggi dei personaggi tra Manhattan e Harlem. E dal finestrino del taxi, il panorama urbano riesce a materializzarsi nella mente di noi lettori.
New York, in notturna, mentre Rufus cammina
La Settima Avenue era silenziosa, le insegne luminose erano quasi tutte spente. Ogni tanto passava una donna, oppure un uomo; più raramente una coppia. Agli angoli della strada, nella luce di qualche drugstore, gruppetti di bianchi chiacchieravano allegramente, si scambiavano larghi sorrisi, si davano pacche sulle spalle, fischiavano ai taxi che poi li inghiottivano, oppure sparivano dietro le porte dei drugstore o nel buio delle strade laterali. I chioschi dei giornali, come neri modellini su un plastico, presidiavano gli angoli dei marciapiedi, e poliziotti, tassisti e altri, difficili da classificare, se ne stavano là davanti battendo i piedi e chiacchierando come se conoscessero tutti il giornalaio infagottato. Un’insegna informava quale chewing gum favoriva relax e sorriso. Il nome di un albergo, a enormi lettere al neon, sfidava il cielo senza stelle. Così pure i nomi dei divi del cinema e d’altri illustri signori che già si esibivano a Broadway o promettevano d’arrivarci prossimamente, e i titoli delle opere a caratteri cubitali che li avrebbero portati all’immortalità. Tozzi come falli, aguzzi come lance, gli alti edifici bui vigilavano sopra la città che non dorme mai.
Harlem, vista da Cass dal taxi il giorno del funerale di Rufus
Il taxi correva verso la periferia, superando gruppetti di uomini piantati davanti ai barbieri, alle friggitorie, ai bar; correva superando vicoli lunghi, bui, rumorosi, con case grigie che si protendevano a oscurare il cielo – e all’ombra di quelle case sciamavano e ronzavano bambini, numerosi come mosche su carta moschicida. Poi abbandonarono l’Avenue, svoltarono a ovest e imboccarono a velocità ridotta una lunga, grigia traversa. Dovevano avanzare lentamente perché la strada era affollata di gente che non aveva fretta, di ragazzi che su entrambi i lati sbucavano come frecce tra le macchine parcheggiate per tutta la lunghezza della strada. C’erano persone sui gradini di casa, altre che urlavano dalle finestre e giovani che sbirciavano con indifferenza nel taxi che avanzava lento, con un’espressione ironica e lo sguardo impenetrabile.
La stessa cosa vale per i personaggi, i loro movimenti, gli sguardi: Baldwin ci fornisce gli strumenti per interpretare i loro pensieri. Li vediamo agire davanti ai nostri occhi, e ci sembra di conoscerli da sempre. Anche i loro pensieri più reconditi emergono dal profondo e diventano parole, forti come lance, che Baldwin scaglia senza riserve contro il lettore. Un’ultima considerazione riguarda la struttura del romanzo, che consta di tre parti in cui Baldwin si sposta da un personaggio all’altro, da una nazione all’altra. Dal labirinto delle strade di New York – quando racconta di Rufus, Vivaldo, Cass e Richard – lo seguiamo fin nei vicoli chiassosi e desolati di Harlem, il quartiere dove Rufus è cresciuto, con la sua musica travolgente e il pericolo dietro a ogni angolo. Poi all’improvviso ci ritroviamo oltreoceano – in Francia, tra la capitale e la quiete della Riviera – insieme a Eric e al suo giovane amante Yves. A questi spostamenti si alternano anche salti temporali e digressioni dal forte carattere introspettivo. Baldwin ricorre spesso alla tecnica del falshback, per rievocare l’infanzia dei protagonisti o altri episodi particolarmente significativi. Questa narrazione stratificata e frammentaria, si fonde con il ritmo della musica blues. I ritornelli blues, lasciati in lingua originale, accompagnano le vicende dei personaggi e hanno una funzione allusiva e confortante: rivelano i loro turbamenti interiori, ma riescono allo stesso tempo ad alleviare il loro tormento. Sul giradischi a casa di Richard e Cass suonano sempre i brani di Bessie Smith; c’è il blues al funerale di Rufus e sentiamo ancora il blues risuonare nei ritornelli che Ida canticchia tra sé mentre riordina la cucina.
Esattamente come Baldwin ha impiegato quindici anni per completare il romanzo, immagino che la traduzione abbia richiesto un lavoro altrettanto enorme al traduttore. Prima di esprimere un qualsiasi giudizio, ci tengo quindi a sottolineare il grande sforzo di Attilio Veraldi, voce italiana di Baldwin. Volevo anche specificare che non ho letto l’intero libro in inglese, per ovvi motivi di tempo, ma solo alcuni estratti. Per questa recensione, mi limiterò quindi a proporre alcune osservazioni che si riferiscono alle parti in cui ho messo a confronto l’originale e la traduzione. La prima cosa che ho notato è che Attilio Veraldi ha lavorato molto sull’italiano, ha preferito favorire la leggibilità in certi casi, allontanandosi un po’ dall’originale. Spesso ha dato una sua interpretazione al testo. Nella sua traduzione cambia la struttura delle frasi, così come la punteggiatura. Il traduttore però non stravolge il senso, né si perde elementi importanti. A volte, lima su alcune parole o espressioni anaforiche che in inglese vengono ripetute ad esempio due o tre volte, a favore di una struttura più lineare. Credo che l’intenzione del traduttore sia stata quella di riprodurre l’immediatezza espressiva dell’inglese. Probabilmente, se la traduzione avesse mantenuto questa tendenza a ripetere più volte gli stessi elementi per unire o cominciare nuove frasi (tipico in Baldwin) l’italiano avrebbe potuto risultare macchinoso e ridondante. Come nell’esempio sotto: la prima ripetizione è conservata, per le altre Veraldi preferisce intervenire sulla punteggiatura ed evitare qualche ripetizione (making, viene tradotto solo una volta così come getting e mayb, reso con “magari”). Preferisce anche non iterare il who delle due frase relative e unirle insieme.
It made him remember days and nights, days and nights, when he had been inside, on the stand or in the crowd, sharp, beloved, making it with any chick he wanted, making it to parties and getting high and getting drunk and fooling around with the musicians, who were his friends, who respected him. Then, going home to his own pad, locking his door and taking off his shoes, maybe making himself a drink, maybe listening to some records, stretching out on the bed, maybe calling up some girl.
* * *
Gli ricordò i giorni e le notti, i giorni e le notti in cui anche lui era lì dentro, sulla pedana o tra la ressa, brillante, ammirato,a spassarsela con tutte le ragazze che voleva, a far festa, sballarsi, ubriacarsi e far casino con i musicisti, che erano suoi amici e lo rispettavano.Per poi tornarsene a casa, nel suo letto, chiudersi la porta alle spalle, togliersi le scarpe, magari prepararsi da bere, ascoltare un disco steso sul letto, e telefonare a qualche ragazza.
Ho apprezzato la traduzione di Attilio Veraldi per quanto riguarda la resa delle descrizioni e il loro tono lirico. Pur prendendosi qualche libertà, il traduttore rende giustizia alla lingua di Baldwin fatta di contrasti, dove alle immagini più toccanti e poetiche si alternano spesso scene violente, cariche di una travolgente ferocia. La traduzione si adatta agli sbalzi di registro e cerca di restituire la spontaneità dei dialoghi ricchi di modi di dire, colloquialismi, espressioni spinte anche molto volgari che hanno un forte impatto sul lettore. Mi riferisco soprattutto alle scene di sesso e alle parole utilizzate per indicare gli organi genitali maschili e femminili. A questo proposito vorrei citare il lavoro di revisione di Valentina Nicoli che per l’edizione di Fandango 2019 ha contribuito a “rinfrescare” la lingua della prima traduzione di Veraldi pubblicata nel 2004 per Le Lettere. Quest’opera di aggiornamento è degna di nota in quanto riesce a rinvigorire l’italiano, dando un tocco di vivacità alle conversazioni dei personaggi, caratterizzando il loro modo di parlare per farne sentire la spontaneità.
Una cosa che non posso fare a meno di segnalare riguarda la resa delle parole che identificano la razza e il colore della pelle. Sicuramente qui entrano in gioco delle specifiche dinamiche culturali, che hanno a che fare con la realtà urbana tipica di New York, la città dei due mondi, in cui si è posta la necessità linguistica di distinguerli. L’inglese è dunque più specifico, dispone di più varianti tra cui spiccano le voci nigger, black, Negro, darky, coloured. In italiano non abbiamo la stessa ricchezza e dobbiamo quindi usare le stesse parole (nero, negro, di colore), alternandole tra loro, ma bisogna fare molta attenzione. Occorre infatti scegliere di volta in volta la parola più adatta a seconda del contesto, valutare se è presente o meno un intento dispregiativo in base all’umore dei personaggi e alle loro opinioni.
Volevo infine condividere questo esempio di residuo, secondo me inevitabile, che vede al centro la traduzione della parola boy. Leggete questo breve botta e risposta tra Rufus e Leona. Mentre stanno passeggiando al Village, vedono un ragazzino italiano che li fissa con disprezzo e Rufus, che già si sentiva a disagio, si stizzisce. La parola boy compare tre volte, ma con accezioni molto diverse (di cui forse la traduzione non riesce a tener conto):
‘Faggot,’ Rufus muttered.
Then Leona surprised him. ‘You talking about that boy? He’s just bored and lonely, don’t know no better. You could probably make friends with him real easy if you tried.’
He laughed.
“Well, that’s what’s the matter with most people,’ Leona insisted, plaintively, ‘ain’t got nobody to be with. That’s what makes them so evil. I’m telling you, boy, I know.’
‘Don’t call me boy,’ he said.
‘Well,’ she said, looking startled, ‘I didn’t mean nothing by it, honey.’
«Frocio», borbottò Rufus.
* * *
Leona lo lasciò di stucco: «Parli di quel ragazzo? È solo, si annoia e non ha di meglio da fare. Con molta probabilità sareste diventati ottimi amici se solo ci avessi provato».
Rufus si mise a ridere.
«È proprio questo il guaio di tante persone», insistette Leona con voce lamentosa, «che non hanno nessuno con cui stare. È per questo che diventano cattive. Lo dico perché lo so, ragazzo».
«Non chiamarmi ragazzo».
«Be’» disse lei sorpresa, «non volevo offenderti, tesoro».
Nel primo caso la parola ragazzo assume il significato più generale e indica il giovane italiano che li sta guardando al parco. La seconda volta, invece, Leona chiama Rufus boy in maniera affettiva, nel senso di «amore» o «tesoro», ma come avrete visto Rufus è contrariato e le dice – e me lo vedo rivolgersi a lei con un tono deciso – di non chiamarlo così. Questo perché boy è una parola con una forte connotazione negativa, che risale al periodo coloniale. Infatti i bianchi si rivolgevano così ai neri, quindi questa parola racchiude in sé tutta la storia del rapporto di subalternità tra bianco e nero: colonizzatore e colonizzato, padrone e schiavo. Leona rimane stranita dalla sua reazione, ma forse può averne intuito il motivo in un secondo momento. Ad ogni modo, nella battuta successiva, si scusa e usa un nuovo appellativo, honey.