La città Senza Cielo, Jean Malaquais
Editore: Cliquot
Traduzione di Elisabetta Garieri
Immaginate di tornare a casa, una sera, dopo una lunga giornata di lavoro. Immaginate di inserire la chiave nella serratura del vostro appartamento e di non riuscire ad aprire la porta. Immaginate che dall’altro lato non ci sia vostra moglie o vostro marito, ma un perfetto sconosciuto, grande e grosso.
Questa è la storia di Pierre Javelin, protagonista del libro La città senza cielo di Jean Malaquais.
Erano quasi le sette quando introdussi la chiave nella toppa del mio appartamento, e quella si rifiutò di girare. Scivolava nella toppa e non girava. […] Mi venne da pensare che Catherine si stesse divertendo a tappare la serratura. […] Ricominciai ad armeggiare con la chiave e a scuotere la maniglia, quando la porta si socchiuse e sulla soglia apparve un uomo, un gigante calvo con i baffi alla russa.
La vita di Pierre, piazzista di cosmetici e lozioni di bellezza, viene spazzata via in pochissime righe. Pierre non è più Pierre. Non esiste più. O forse non è mai esistito. Catherine, la moglie, è scomparsa. Al lavoro non riconoscono neanche la sua firma, che assomiglia a uno scarabocchio, un segno indecifrabile.
Quello che segue è la storia strana, surreale, di un uomo alla ricerca disperata della sua identità. Più si va avanti nella lettura, più la situazione peggiora, sembra un incubo senza fine, non c’è nessuna possibilità di risveglio. Pierre dovrà fare i conti con una burocrazia schiacciante e opprimente, con un sistema complottista e con la Città, essere supremo al di sopra di tutto e tutti, capace di controllare e tenere a bada i suoi cittadini.
Tra incontri inaspettati, archivi inaccessibili, lunghi corridoi, stanze asettiche e porte che non si aprono, il protagonista cercherà in tutti i modi di non cadere nella trappola dell’anonimato e lotterà fino all’ultimo per non diventare una pedina nelle mani della Città.
Jean Malaquais scrive questo libro nel 1953. È un autore rivoluzionario, anticonformista, complesso e molto scrupoloso. Nella prefazione, Norman Mailer racconta che Malaquais
[…] rimaneva alla sua scrivania per dieci, dodici, o anche quattordici ore al giorno, tutti i giorni. Si faceva vanto di non alzarsi mai […] stava seduto a contemplare il foglio e scriveva… con un ritmo di due o trecento parole al giorno.
Forse per questo la scrittura di Malaquais è estremamente dettagliata e ben calibrata. Lo stile puntuale e preciso denota una grande ricerca nel lessico e nella struttura delle frasi. Potremmo quasi definirlo uno stile geometrico: la Città è geometrica, «è un immenso grattacielo grande come il mondo stesso», «è un ammasso di grigi parallelepipedi». Ma anche le facce sono squadrate e gli oggetti hanno forme ben definite. C’è molto rigore nelle sue descrizioni; per esempio, quando Pierre incontra per la prima volta Babich, lo psico-logico, lo introduce così al lettore: «porta un completo scuro, e una riga netta separa in due i capelli sale e pepe».
Tutto nella scrittura di Malaquais, quindi, ci trasmette un senso di oppressione e di controllo. La città senza cielo è un libro che anticipa molte forme di dispotismo, è un libro vivo, profetico. Grazie all’abile penna dell’autore, il lettore viene trascinato nella folle e corrotta burocrazia della Città, e vive, assieme al protagonista Pierre, tutte le sue angosce più profonde, in primis il terrore della perdita di identità.

E se anche il lettore italiano riesce a provare queste sensazioni, lo deve all’ottima resa della traduttrice, Elisabetta Garieri. Ogni sfumatura viene colta nei minimi dettagli, le parole scorrono veloci, senza intoppi, una dietro l’altra, e il lettore non può far altro che continuare ad andare avanti, facendosi trascinare e coinvolgere dalla bravura della traduttrice. Una nota di merito va soprattutto alla resa dei dialoghi; l’intento di Malaquais, infatti, è quello di proporre scambi di battute surreali, bizzarri, a volte incomprensibili. Allo stesso modo, Garieri ce li restituisce in italiano. Ecco un esempio, in questo caso si tratta di un botta e risposta tra Pierre e Babich:
«Che cos’è, secondo lei, un uomo?»
«Da che punto di vista?»
«Dal punto di vista della storia naturale.»
«Un mammifero» dissi.
«E, mettiamo, una balena?»
«Un pesce. No, un altro mammifero.»
«Perfetto. Lei è del parere che, pur essendo mammiferi entrambi, l’uomo comunque non sia una balena?»
«Sarei abbastanza di questo parere» dissi.
«E pur essendo di questo parere non avanzerebbe però l’ipotesi che una non-balena è un uomo?»
«Oh oh!» dissi.
«Mi piacerebbe che lei rispondesse» disse.
«Non avanzerei quest’ipotesi.»
Molto interessante è anche la patina di estraneità e di “altro” che si percepisce. Come in ogni traduzione che si rispetti, è piacevole cogliere elementi che non fanno parte della nostra cultura. Solo così abbiamo la possibilità di arricchirci, di imparare e di crescere. La traduttrice sceglie di non tradurre alcune parole e di caratterizzare ancora di più il testo. Per cui il forte odore che Pierre sente ogni volta che entra in una stanza in cui c’è Babich, viene descritto come “puzza di eau de javel” (e non come puzza di candeggina). Il lettore italiano, pur non conoscendo il significato di eau de javel, assocerà comunque l’odore a qualcosa di sgradevole e fastidioso.
Un’ultima curiosità: il titolo originale francese è Le gaffeur. È una parola chiave, significa «persona che fa una gaffe, che crea imbarazzo negli altri». E descrive molto bene il protagonista. Pierre Javelin è un personaggio scomodo, insistente e che continua a fare domande per scoprire la verità. Per questo mette a disagio le persone che gli stanno intorno, le disorienta. È inopportuno e spesso, appunto, commette delle gaffe. Forse sarebbe stato bello provare a inserirla in qualche modo nel libro.
In conclusione, La città senza cielo è una lettura intensa e disorientante. Molto consigliata a chi ama i romanzi distopici, ma soprattutto a chi non vuole sentirsi un numero tra tanti.