Perché il bambino cuoce nella polenta, Aglaja Veteranyi

Mi immagino il cielo.

È così grande che, per calmarmi, mi addormento subito.

Quando mi sveglio so che Dio è un po’ più piccolo del cielo. Altrimenti pregando ci addormenteremmo continuamente per la paura.

Dio Parla le lingue straniere?

Capisce anche gli stranieri?

O forse gli angeli stanno in piccole cabine di vetro e traducono?

Editore: Keller

Traduzione: Emanuela Cavallaro

Così inizia la storia della protagonista, una bambina che viene da una famiglia di artisti circensi. Fuggiti dalla Romania per scampare alla povertà e alla dittatura, montano e smontano il tendone del circo,  girano di città in città e vivono alla giornata. A volte è frustrante, la bambina lo confessa, ma almeno lei e i suoi famigliari, all’estero, possono permettersi il lusso di non dover aspettare in fila per fare la spesa e non hanno i denti marci come succede anche ai bambini in Romania, perché comprare la carne fresca costa troppo. Ma soprattutto sono liberi di pensare, e di sognare senza il timore di essere scoperti dalle spie. La bambina racconta la vita di tutti i giorni, ci parla dei piatti che cucina sua madre, del loro profumo che le fa venire la nostalgia di casa (Sehnsucht – esiste parola più bella di questa?). E tra un aneddoto e l’altro, si apre il sipario sui suoi parenti e le loro abilità straordinarie. Scopriamo che la madre è la donna dai “capelli d’acciaio” che ogni sera, appesa alla cupola del tendone, cammina nell’aria. O il padre che nel circo è un tuttofare (clown, saltimbanco e pure “bandito”) ma in realtà sogna una carriera a Hollywood e gira bizzarri film amatoriali.  La sorella maggiore, invece, dopo essersi sfondata un ginocchio, è riuscita a guadagnarsi un numero di giocoleria tutto suo al circo. Per non parlare della zia, il personaggio più strambo di tutti, che legge il futuro nelle tazze di caffè, parla coi morti e ha una collezione di peluche vinti dai suoi amanti al tiro a segno. Piano piano impariamo a conoscere meglio la bambina e la seguiamo nella sua crescita. Non occorre molto per rendersi conto che, dietro al suo caratterino pungente, si nasconde un animo sensibile e riflessivo. La bambina è molto intelligente e ci regala riflessioni davvero toccanti. Si pone domande a cui nessuno può rispondere. Come la paura della morte, l’ansia per il futuro, il senso dell’estraneità. Ma c’è una cosa che riesce a rasserenarla: la storiella del bambino che cuoce nella polenta. Questa curiosa ricetta è l’ingrediente segreto che riesce a esorcizzare le sue paure. E la cosa bella è che la storia è sempre diversa: i dettagli che si aggiungono la fanno diventare letteralmente “farina del suo sacco”. Ben presto una serie di squilibri metteranno a dura prova la serenità della bambina, che dovrà affrontare la sfida più difficile di tutte: diventare grande in un mondo ostile che non smette mai di schiacciare i più deboli.  Per fortuna niente può impedirle di sognare, di immaginare che in fondo una giustizia esiste. Come un piatto di polenta che, servita in tavola ancora fumante, ha il potere di riunire e confortare tutti quanti.

Il romanzo narra la vicenda autobiografica dell’autrice. Dal punto di vista stilistico, la cosa che mi ha colpito di più di questo libro sono le continue domande e  il senso di vuoto che suscitano nel lettore. La scrittura di Aglaja Veteranyi è fluida, essenziale. La narrazione non è fitta, le pagine sono ridotte al minimo. Come se le parole venissero distillate e le informazioni “diluite”. C’è una gestione dello spazio molto particolare, addirittura capita di trovare pagine con una sola domanda che ha un impatto fortissimo. Rimbomba nella testa del lettore. Si ha l’impressione di pensare come la protagonista. Attraverso la bambina, l’autrice si interroga su temi molto complessi, ma lo fa in maniera attendibile. Perché non viene mai fornita una risposta. Troviamo reazioni semplici, a metà strada tra la saggezza popolare e il candore infantile. Ho molto apprezzato la sincerità disarmante del personaggio e la narrazione che avanza sospesa nel vuoto come un acrobata. Il romanzo è tutto un alternarsi di chiaroscuri. Da un momento all’altro l’allegria sparisce e subentrano la tragedia, l’angoscia, la morte. Un altro elemento che ho apprezzato è la personalità stratificata della protagonista: in alcune occasioni è estremamente naïve e spontanea; ma altre volte rivela un lato consapevole, come dimostrano le sue idee sulla povertà, la dittatura e lo sforzo di cercare la felicità nelle cose più semplici.

La traduttrice Emanuela Cavallaro si muove con grande maestria tra le brevi frasi e le continue domande della protagonista. Mostra un grande rispetto per il suo linguaggio semplice che, la maggior parte delle volte, sceglie di tradurre in maniera quasi letterale. Trovo la scelta molto efficace per rendere la visione del mondo della bambina, stereotipata ma pura. Nell’originale la lettura non è mai faticosa, scivola via, ma le parole della bambina si imprimono nella testa e non passano mai inosservate. In italiano ho avuto la stessa impressione. La traduttrice è stata brava a calibrare il peso di queste parole e ha capito quando modificare l’ordine di alcuni elementi per restituire la stessa scorrevolezza. Mi piace il modo in cui ha spostato l’enfasi in alcune frasi per ottenere un tono leggero, simile al dialogo. Questo atteggiamento di “andare dietro” alla voce dell’autrice/narratrice si vede anche nel modo di tradurre alcune espressioni che rimangono più vicine all’originale, ma riescono ad adattarsi bene al testo italiano. La tendenza della traduttrice quindi è quella di stare in equilibrio sulle parole della bambina senza spiegarle troppo. Ne vengono fuori immagini molto belle. Ecco due piccoli esempi di rese che mi hanno colpito:

a)

Die rohe Zwiebel schmeckt mir am besten, wenn ich sie mit der Faust zerdücke. Das spickt das Herz auf.

La cipolla cruda mi piace soprattutto quando la schiaccio con il pugno. Allora esce il cuore.

b)

Am liebsten will ich so sein wie die Leute draußen. Dort können alle lesen und wissen Bescheid, sie haben eine Seele aus Weißmehl.

Il mio più grande desiderio è essere come le persone là fuori. Loro sanno leggere e conoscono tutto, hanno l’anima di farina bianca.

Un’altra particolarità del linguaggio riguarda l’uso frequente di verbi sostantivati che non sono mai semplici da tradurre in italiano. In tedesco rimandano a un piano astratto e contribuiscono a creare un senso di vaghezza. Emanuela Cavallaro ha deciso di tradurli come verbi, sempre in funzione di una maggiore scorrevolezza. Qui si delinea una diversità tra le due lingue, ma la traduttrice ne è consapevole e propone una traduzione coerente e condivisibile. Un’ultima riflessione riguarda la gestione delle ripetizioni. In generale,  la traduttrice si rivela “flessibile” nei confronti dei rimandi e spesso opta per conservarne solo alcuni ad esempio due su tre (che comunque è una buona media!). A questo proposito cito un estratto che mi ha molto colpito, dove si parla del concetto di estraneità in contrapposizione al “sentirsi a casa”. La cosa difficile era cogliere e conservare questo gioco di opposizioni:

Hier ist jedes Land im Ausland.

Der Zirkus ist immer im Ausland. Aber im Wohnwagen ist das Zuhause. Ich öffne die Tür vom Wohnwagen so wenig wie möglich, damit das Zuhause nicht verdampft. Die gerösteten Auberginen meiner Mutter riechen überall wie zu Hause, egal, in welchem Land wir sind. Meine Mutter sagt, daß wir im Ausland viel mehr von unserem Land haben, weil das ganze Essen unseres Landes ins Ausland verkauft wird.

WÄREN WIR ZU HAUSE, WÜRDE DANN ALLES WIE IM AUSLAND RIECHEN?


Qui ogni paese è all’estero.

Il circo è sempre all’estero. Ma nella roulotte c’è casa. Apro la porta della roulotte il meno possibile, perché casa mia non evapori.

Le melanzane arrostite di mia madre profumano ovunque come a casa, non importa in che paese siamo. Mia madre dice che all’estero si trovano molte più cose del nostro paese, perché tutto il cibo del nostro paese viene venduto all’estero.

SE FOSSIMO A CASA PROFUMEREBBE TUTTO COME ALL’ESTERO?

Le ripetizioni delle varie parole sono mantenute, ma la cosa più interessante riguarda la resa delle coppie Zuhause (sostantivo, lo stare a casa, concetto astratto e affettivo) e zu Hause (complemento di luogo con preposizione, più concreto e spaziale). Ho apprezzato la traduzione di Zuhause con «casa mia», perché come per l’inglese home si riferisce proprio al senso di protezione, di appartenenza che si avverte a casa. Quindi l’aggiunta del possessivo aiuta a trasmettere questo concetto. Viene ripetuto due volte in tedesco e solo una volta in italiano. Ma questa è una libera scelta della traduttrice. Il discorso delle ripetizioni è molto complesso e non tutti hanno lo stesso approccio. Si poteva provare a conservare anche la seconda volta? Forse sì, ma non è questo il punto. La cosa importante è che Emanuela Cavallaro ha sicuramente colto questa sottile differenza e ne ha lasciato una piccola traccia nel testo italiano. Ed è questa la vera conquista!

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