Gaiezza o giovialità? Bella domanda
Martedì 8 ottobre, tra gli scaffali della libreria Centofiori di Milano – dove ormai siamo di casa – si è tenuto un workshop molto interessante sul rapporto tra traduttore e revisore. Noi non ci siamo di certo lasciate sfuggire quest’occasione d’oro. Siamo corse con passo deciso nella bella libreria di Vittorio Graziani con il tipico entusiasmo di chi vuole saperne di più. E abbiamo fatto bene, perché lì abbiamo incontrato tutto il parterre di traduttori che stimiamo molto e invitiamo spesso ai nostri eventi.
Schierati, ognuno sulla sua poltroncina bianca, i due relatori si preparano all’incontro. Per il fronte degli “autori invisibili”, Giuseppe Girimonti Greco, traduttore e saggista che lavora e collabora con varie case editrici italiane. Portavoce dei revisori invece, Giancarlo Maggiulli, editor di esperienza trentennale all’Adelphi. Forse può sembrare questo lo scenario; forse la maggior parte delle persone se lo immagina così, il legame tra queste due importanti figure della filiera editoriale. Come uno scontro, appunto, in un territorio di frontiera dove si respira un’aria pesante, ostile. Un luogo insicuro, in cui ognuno cerca di far valere le proprie frasi e difendere a tutti i costi le proprie parole. Senza scendere a compromessi.
Questa è sicuramente un’opzione; del resto il revisore è un po’ lo spauracchio di chi traduce. Spesso il traduttore teme l’insindacabile giudizio del revisore, che ha sempre l’ultima parola. Per non parlare poi di tutti i segni grafici che minacciano l’integrità del testo che ha tradotto, il frutto di mesi di lavoro per traghettare una voce in un’altra lingua e cultura: biscioline rosse, commenti all’interno del testo, cancellazioni varie. E chi più ne ha, più ne metta.
Ma se c’è una cosa che i due relatori hanno saputo davvero trasmettere, è che può esserci un altro tipo di rapporto. Perché traduttore e revisore lavorano anzitutto alla pari. Dialogano insieme, si confrontano a lungo su una parola e condividono un testo come un dono. Insomma, collaborano a un obiettivo comune. Ecco che da rosse le biscioline diventano verdi, e i commenti si spostano a margine, per non parlare delle cancellazioni che cedono il posto alle più inoffensive sottolineature.
Soprattutto ci hanno dimostrato quanto i libri siano fonte di sinceri e duraturi legami di amicizia. Questa è la premessa con cui si apre il loro dialogo.
Greco e Maggiulli ci raccontano il loro lavoro a partire da un libro molto particolare: un vertiginoso intreccio sospeso fra realtà e finzione, fra storia e arte, dove si muovono personaggi realmente esistiti, capitanati però da un protagonista puramente inventato. Il libro in questione è Les Onze di Pierre Michon, pubblicato in italiano da Adelphi con il titolo Gli undici. E per parlarci di questo amichevole rapporto di collaborazione, i due relatori decidono di partire dall’incipit, perché «la grande potenza espressiva dello scrittore è già contenuta nelle prime righe», come ci rivela Maggiulli, ripensando alla lezione del suo maestro e mentore Giuseppe Pontiggia. Cosa ancora più vera se l’incipit è quello di Michon. Secco, arido, diretto:
Il était de taille médiocre, effacé, mais il retenait l’attention par son silence fiévreux, son enjouement sombre, ses manières tour à tour arrogantes et obliques – torves, on l’a dit […]
Da qui Giuseppe Girimonti Greco illustra le graduali scelte, prese insieme al revisore, che hanno portato alla versione definitiva. E Giancarlo Maggiulli spiega i suoi interventi, specificando che sono suggerimenti più che correzioni, sono «le proposte di chi entra in casa d’altri». Una grande lezione di umiltà.
E così scopriamo che la resa iniziale del traduttore: «Era un tipo incolore, né alto né basso […]» viene filtrata dal revisore fino a condensarsi in un più asciutto:«Era scialbo, di media statura […]». Una versione più convincente – concordano Greco e Maggiulli – in quanto preserva la stessa immediatezza dell’originale e riflette la cifra stilistica dell’autore. Restituisce inoltre al lettore italiano lo stesso effetto, pur con qualche modifica. Il lettore più attento noterà che è stato invertito l’ordine delle parole, il colore del personaggio (espresso nell’aggettivo effacé, scialbo in italiano) viene anticipato nel testo italiano rispetto al francese che forniva dapprima un’informazione sulla statura. Ma di nuovo, questo ribaltamento – già inserito nella prima bozza dal traduttore – non sovrasta l’autore, al contrario caratterizza la sua forte espressività e contribuisce a rendere l’esperienza di lettura ancora più autentica. La traduzione comporta incomplete metamorfosi, a volte significa anche «trasformare tutto, in modo che nulla cambi» come diceva Günther Grass.
Il momento però dove abbiamo davvero visto lo scambio alla pari, il rapporto costruttivo tra traduttore e revisore, si è presentato qualche riga più avanti, racchiuso nell’ossimoro enjouement sombre. Qui è stato curioso assistere al dibattito Maggiulli-Greco, e notare i saltimbanchi verbali a ritmo di dizionario che si sono susseguiti per approdare alla resa finale «gaiezza cupa».
Gaiezza come propone il traduttore o giovialità come propone il buon revisore rifacendosi al testo originale? Ancora una volta, Greco e Maggiulli spiegano a ritroso i loro ragionamenti e ricostruiscono il discorso che orbita intorno al significato di queste due parole. Chi ha frequentato anche solo una lezione di traduzione lo sa che i sinonimi non esistono, e che spesso tutto si gioca nel difficilissimo gesto di scegliere la sfumatura più giusta. E per limare il dilemma tra le due parole, Maggiulli legge le definizioni e cerca di farci capire in che modo il suo intervento è stato utile per migliorare la traduzione di Greco. Gaiezza è quel tipo di letizia, che esprime «la natura delicata di un bambino, o di una fanciulla». Giovialità, invece, si abbina più all’idea di allegria. I punti di forza di entrambi? Gaiezza è breve, funziona bene sul piano del ritmo, suggerisce Greco. Giovialità, però, è più pregnante sul piano semantico e rende meglio l’ossimoro.
Quindi, gaiezza o giovialità?
Non è un segreto, lo si può leggere nella versione pubblicata: gaiezza ha avuto la meglio. Sarà che forse era la prima soluzione del traduttore. Sarà perché ha prevalso di nuovo la concisione stilistica di Michon. O forse Maggiulli non ha mai voluto imporsi in fase di revisione – anche se in altri punti si è sentito in dovere di tranquillizzare il traduttore dal timore del calco e riportarlo sulla strada giusta, cioè verso traducenti più simili (il francese torve, tradotto con equivoci e ripristinato nel corrispettivo torvo; o recension tradotto con rassegna e ripristinato con il corrispettivo recensione).
Ma non finisce qui. Come succede nei migliori film, c’è un colpo di scena!
Maggiulli e Greco ci confessano che, probabilmente, sarebbe stato meglio optare per giovialità. È una parola importante per Michon, visto che tornerà più e più volte nel testo. Magari poteva rendere meglio l’atmosfera creata dall’autore, e connotare il suo singolare protagonista.
Il famoso “senno di poi” con cui il duo Greco-Maggiulli lancia un messaggio importante. Ogni testo è un elemento vivo, che evolve nel tempo e la traduzione è sempre una forma di interpretazione (come diceva Umberto Eco). In due parole, questa volta non ossimoriche:
Cangiante e perfettibile.
Grazie quindi a Giuseppe Girimonti Greco e a Giancarlo Maggiulli per la loro presentazione davvero illuminante. Grazie a Franca Cavagnoli per aver portato questo bell’esempio di collaborazione editoriale a Milano. E, infine, grazie a Vittorio, che da buon libraio, ci vede sempre lungo e ospita workshop preziosi, fuori dal comune.