LABAMBINA, MARIELLA mEhr

Fandango Editore, trad. di Anna Ruchat

Il romanzo Labambina ricostruisce una storia poco conosciuta: la persecuzione dell’etnia Jenisch sostenuta dal governo svizzero dal 1926 al 1986 per combattere il nomadismo. Secondo volume della “Trilogia della violenza”, il romanzo racconta la vicenda autobiografica dell’autrice attraverso la figura della protagonista, una bambina di strada, di cui non viene rivelato il nome. La si presenta sempre e solo come Labambina. Rimasta orfana, Labambina viene “affidata” a una comunità che la disprezza e la rifiuta. In paese la gente, dominata dalla superstizione, non vede di buon occhio Labambina e mormora: gli uomini la chiamano Accidentidiunabambina, Puttanella, Sudiciamarmocchia; le donne invece credono che sia caduta dal carro del diavolo; i bambini la evitano. La bambina è sola, nessuno le da amore. Non parla mai, almeno non con le parole, neanche quando le frustate di Kari Kenel lacerano la sua tenera carne; o quando di notte sente i passi minacciosi del Sempreverde. Labambina è diversa da tutti. Di notte non dorme, va spesso a curiosare nel cimitero della Michaelskirche e adora i temporali. In paese sente il peso della violenza e del pregiudizio, ma nella natura è libera e trova consolazione tra gli alberi, insieme alla Donnadelbosco che colma il vuoto d’amore creato dalle persone. La bambina è chiusa nel suo dolore, ma dentro di lei arde il desiderio di vendetta. “Quando saremo grandi”, promette a se stessa, “uccideremo uno di loro”. Con questo romanzo Mariella Mehr raccoglie finalmente le grida silenziose della bambina e si fa portavoce di tutti quei bambini nomadi sottratti alle proprie famiglie, raccontando così le atrocità del programma eugenetico Enfants de la grand-route — Kinder der Landstrasse — promosso dalla fondazione svizzera Pro Juventute.

Crudo, violento, ostinatamente provocatorio: lo stile di Mariella Mehr ha un forte impatto sul lettore, scosso dalle emozioni struggenti che emergono dalle pagine. Nel tentativo di andare oltre alla parola, Mariella Mehr sfida le leggi della grammatica e proietta il lettore verso una lingua distorta, ribelle. L’autrice non rispetta l’ortografia, nè la normale spaziatura, scrive molte parole attaccate, e utilizza uno stile sconnesso dove anche la punteggiatura appare del tutto arbitraria. La narrazione non scorre fluida, procede a intermittenza come le scariche dell’elettroschock di cui la stessa Mariella Mehr è stata vittima. La storia è costruita come un mosaico, le cui tessere si aggiungono pian piano nel corso della lettura attraverso frasi che si ripetono sistematicamente, come ritornelli. Questa tecnica contribuisce a creare un aspetto di oralità al romanzo, raccontato sempre dalla prospettiva – turbata e sofferente – della bambina. È lei la fonte da cui sgorgano le lunghe digressioni, che si sovrappongono alla trama principale e s’intrecciano a brandelli di ricordi e di situazioni reali. È lei il fulcro delle impressioni e delle visioni cruente che, come schegge, si infilzano nella mente del lettore e riflettono la sua rabbia. Eppure nelle parole mute della bambina si cela anche la sua voglia di (r)esistere e trovare un riparo sicuro.

La traduttrice Anna Ruchat è molto vicina al testo originale, di cui riproduce non solo il tono cupo, ma anche lo stile. Nella traduzione italiana approdano intatte, senza spazi a separarle, le numerose parole composte che catturano la realtà dal punto di vista della bambina; anche molte maiuscole sono traghettate dal tedesco e conservate in italiano senza alcuna riserva. Già nel titolo è evidente l’audacia con cui la traduttrice si approccia alla lingua della Mehr: Daskind diventa quindi Labambina; anche se questa traduzione richiede ovviamente di “rinegoziare” con l’italiano ed esplicitare il genere (il das neutro e così “sospeso” in tedesco perde la sua ambiguità e si riqualifica nell’articolo femminile la in italiano). Inoltre Ruchat traduce questo romanzo nello stesso modo in cui si traduce la poesia: accogliendo gli elementi di estraneità, senza imporre un’interpretazione univoca alle immagini vaghe della Mehr, spesso oscure, blasfeme e contaminate tra loro. Restituisce dunque il linguaggio visionario della scrittrice e regala un’esperienza di lettura estatica ai lettori italiani, che potranno con-fondersi in questo magma di parole e sensazioni conturbanti.