E dal cielo caddero tre mele, Narine Abgarian
Pubblicato da Brioschi Editore, traduzione di Claudia Zonghetti (2018)
Tre mele caddero dal cielo: una per chi ha visto tutto, una per chi ha raccontato la storia e un’altra per chi l’ha ascoltata
Maran è un piccolo paesino armeno fatto di pietra, che svetta in cima a una montagna. Le persone che lo abitano vivono di agricoltura e di allevamento, e tutto sembra procedere alla perfezione finché la guerra e la carestia non arrivano ruggenti a distruggere la tranquillità del posto. I sopravvissuti sono pochi, e una di questi è Anatolija, una donna forte che riesce a riscattarsi solo quando trova un lavoro nella biblioteca di Maran. L’impegno quotidiano nei confronti dei libri e della sua comunità l’aiuterà a sopportare le ingiurie, la violenza del marito e il dolore lancinante dato dall’impossibilità di avere figli. Ma la guerra distrugge anche la biblioteca, e Anatolija è costretta a ricominciare da capo, e lo farà accettando il consiglio dell’amica e guaritrice Jasaman, che la convince a risposarsi con Vasilij, il «fabbro ignorante» e buono, che nella vita ha perso tutto, moglie e figli. Ed è proprio da Anatolija, da Vasilij e dagli altri sopravvissuti che nascono le storie di Maran: storie cariche di eleganza, dolcezza e mistero. E alla fine, come nelle migliori fiabe, accade il miracolo.
Colori, profumi, sensazioni. Queste sono le tre parole che mi vengono in mente se ripenso a questo libro. La penna di Narine Abgarian descrive delicata l’atmosfera sospesa del paesino di Maran: al lettore questo posto diventa subito familiare, ne conosce le tradizioni, gli usi, i modi di dire, l’origine dei soprannomi delle famiglie. La lettura diventa quindi un viaggio, e questo è possibile grazie alle descrizioni evocative che l’autrice ci regala, pagina dopo pagina: i profumi dei fiori con cui Anatolija agghinda la biblioteca, i colori dei paesaggi, il profumo acidulo della pasta lievitata per fare il pane ripieno al formaggio e delle verdure stufate con la salsa di matsun. Questa concretezza, però, si alterna a un’atmosfera fiabesca, sospesa, quasi surreale: spesso non ci si rende conto se quello che leggiamo stia accadendo davvero, oppure sia solo frutto dell’immaginazione di Anatolija, e della nostra. Quella di Abgarjan è, in definitiva, una penna delicata che riesce però a entrare con forza nel cuore dei personaggi, delle vicende, e del lettore che, arrivato all’ultima riga del romanzo, sentirà un profondo e rassicurante senso di appartenenza al mondo descritto.
Non conoscevo Narine Abgarjan prima di E dal cielo caddero tre mele, ma conoscevo la traduttrice, Claudia Zonghetti. Ho fatto il procedimento inverso, insomma: mi sono fidata della traduttrice, e ho scoperto un’autrice straordinaria. Il libro l’ho letto in italiano, e quando ho deciso di inserirlo in questo numero di Tre alla terza, sono andata a leggere l’originale. Per vedere, per capire. Perché dalle traduzioni si impara sempre. E allora ho visto, ho capito, che tutti i tratti caratteristici della scrittura di Abgarjan, Zonghetti li ha riportati nel testo italiano con la stessa delicatezza e cura di cui parlavo prima. Quella che si legge, sia in russo sia in italiano, è una lingua viva e carica di sfumature. È una lingua che rispetta i personaggi, che li caratterizza e che rende giustizia all’autrice. Bello, ad esempio, è il modo in cui Zonghetti riesce a spiegare al lettore l’origine del soprannome dei due personaggi più bizzarri e divertenti di tutto il romanzo, Jasaman e Ovanes, nata dalla storpiatura del sostantivo russo šapka, cappello:
Они были самой забавной в деревне парой. Шлапканц, то бишь из рода Шлапки, Ясаман и Шалваранц – из рода Шалвара – Ованес.
Erano la coppia più curiosa del paese. Jasaman era una Šlapkants, dunque del clan Šlapka-Coblacco, Ovanes uno Šalvarants, dunque del clan Salvar-Braghe.
Bello è inoltre leggere “sozzona” per неряха, ed è bello constatare che Zonghetti non si fa il minimo scrupolo a conservare tutti gli elementi appartenenti alla cultura armena: dai glupa (i calzettoni spessi, fatti a maglia) al matsun (una sorta di yogurt), passando per i nomignoli familiari, le unità di misura e le razze dei cani. Una volta chiuso il libro, quindi, al lettore pare proprio di esserci stato, in Armenia. E non è forse questo uno degli scopi della letteratura, e della traduzione?