POLLO ALLE PRUGNE, Marjane Satrapi

Traduzione di Boris Battaglia, Rizzoli Lizard editore

 

Nasser Ali è un musicista depresso e tormentato da quando la moglie ha spezzato il suo tar – una specie di liuto persiano. Decide allora di lasciarsi morire. Il 15 novembre del 1958 si mette a letto e non si alza più. Morirà otto giorni dopo, il 22 novembre 1958. Otto giorni in cui non mangia, non beve, non suona più. Tutto quello che fa è ricordare: così, attraverso la memoria e i pensieri del protagonista, il lettore entra in contatto con la vita, i fallimenti, le delusioni e le esperienze passate di Ali.

Solo, nella sua stanza, ripensa a un amore perduto, ma mai dimenticato, alla madre e alla sua morte, alla sua infanzia e ai fallimenti scolastici, al fratello maggiore e le scelte politiche non condivise, ai figli e le inevitabili preferenze che si sviluppano negli anni.
Tutto si svolge in modo rapido e dinamico, ma mai banale. Nasser Ali è un personaggio che intenerisce e commuove. Non si può far altro che accompagnarlo verso una fine consapevolmente triste.

Marjane Satrapi scrive questo piccolo capolavoro di 80 pagine con grande maestria e consapevolezza. Con la sua scrittura diretta e ben calibrata, riesce a esprimere in modo impeccabile la disperazione, il dolore e la passione di un uomo. La brevità delle frasi incalza il ritmo; i dialoghi serrati e le risposte secche (“Allora come va?” “Lo vedi. Sono ancora vivo.”) danno un sapore amaro a tutto il graphic novel.

La Satrapi, però, non rinuncia mai all’ironia e anche nei momenti più tristi inserisce un elemento, un particolare che strappa un sorriso al lettore. A rendere il tutto ancora più equilibrato ci sono le immagini; rigorosamente in bianco e nero, esprimono le certezze negate, le domande senza risposta sulla famiglia, sulla coppia e sul significato della vita.
Solo il pollo alle prugne, il piatto preferito di Nasser Ali, sembra per un attimo ridare colore e speranza: ma è una piccola illusione, un barlume di luce in mezzo al buio più profondo.
Boris Battaglia entra in punta di piedi in questo testo così delicato e prezioso. Grazie alla cura e alla ricerca nei minimi dettagli del lessico, il lettore italiano percepisce ogni sfumatura voluta dall’autrice. Tutti gli ingredienti sono al loro posto: la disperazione, l’angoscia, i rimpianti e la frustrazione. Ben riusciti sono soprattutto i dialoghi che rendono le scene reali, tangibili. Quando, per esempio, una delle figlie di Nasser, scherzando con il fratello, esclama: “T’as pété?”, in italiano viene reso con “puzzone!”, termine molto simpatico e tipico del linguaggio dei bambini.

Non mancano elementi estranianti che – sapientemente – Battaglia non traduce. Oltre al tar, viene usata la parola Khan (signore in iraniano). Sono presenti, poi, innumerevoli riferimenti alla cultura e alla storia dell’Iran: viene citato il poeta Khayyan, l’ottavo imam degli sciiti Reza, i Dervisci, mistici sufi e la città santa Mashad. Se da una parte, dunque, il lettore viene catapultato in un mondo altro, lontano, dall’altra il traduttore crea una lingua fluida e scorrevole che restituisce tutto il valore e la grandezza di questo graphic novel.

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