LA RAGAZZA DAI CAPELLI STRANI, David Foster Wallace
Pubblicato da Minimum Fax (2017), Trad. di Martina Testa
Una raccolta di nove racconti che offrono uno spaccato della cultura americana, e delle sue contraddizioni. I personaggi che abitano queste storie sono molto diversi tra loro, ma David Foster Wallace punta dritto sulle loro vite come la luce di un riflettore sul palcoscenico brillanti universitari di Harvard, politici controversi, funzionari pubblici, ranger e allevatori dell’Oklahoma, e poi ancora irriverenti star televisive, cantanti jazz, melanconici pensionati. Persino i punk, con la loro furia e sete di ribellione, irrompono nel palinsesto di questo libro/show (con tanto di TITOLI di coda). Anche i temi trattati, sono molteplici, ma tutti sono volti a rappresentare l’America ossessiva nell’era dei mass media, popolata da persone alienate, fondamentalmente molto sole. Spiccano, tra tutti, la manipolazione del mondo televisivo (Piccoli animali senza espressione, La mia apparizione) il disagio sociale e la vendetta (La ragazza dai capelli strani, John Billy) l’amore trasgressivo e il tradimento (Dire mai, Da una parte e dall’altra) e in ultimo – ma non meno importante – l’ incapacità di comunicare e la solitudine (È tutto verde). In particolare, il racconto che da il nome alla raccolta narra le vicende di Cucciolo Rabbioso e del suo nuovo gruppo di amici punk, che una sera vanno a sentire “un negro che suona il pianoforte”. Durante il concerto di Keith Jarrett, Gin Fizz (la protagonista nonché leader femminile della banda) va in fissa per effetto dell’LSD e continua a guardare una ragazza e i suoi capelli, a suoi dire “strani e affascinanti da osservare” (e detto da Gin Fizz, che ha un’acconciatura alquanto discutibile). Da quel momento, l’intero racconto descrive i trip deliranti di Gin Fizz e degli altri (Cacio, Big, e Mister Wonderful) e culmina con la reazione violenta di Cucciolo Rabbioso – che nonostante il buon lavoro e l’apparente aspetto da bravo ragazzo, è in realtà un sociopatico paranoico con alle spalle gravi traumi familiari e tendenze sadiche.
La scrittura di Wallace non è solo “complessa”, ma labirintica, stratificata. Wallace non è di certo un autore facile da capire e richiede pazienza e concentrazione. I periodi sono lunghi, e la punteggiatura è spesso assente. È come se Wallace volesse dire tutto ai suoi lettori e, allo stesso tempo, avesse paura di non spiegarsi mai abbastanza. Per questo la sua scrittura è così densa, disorientante. Anche i racconti seguono un andamento tutto loro. Si riconosce però una pseudo struttura di base: tutti i racconti partono da uno spunto iniziale e proseguono verso la svelamento di una certa verità. Pagina dopo pagina (e molto lentamente) si dipanano situazioni, contesti: Wallace presenta i personaggi e rivela la loro storia, il loro mondo interiore. Come una sonda, Wallace va in profondità ed esplora TUTTO, nei minimi dettagli. Poi, all’improvviso, quando meno te l’aspetti… finisce il capoverso, arrivi al punto e scopri che si tratta del finale. Un finale in medias res, aperto (anzi spalancato) all’interpretazione del lettore, che deve recuperare i vari tasselli distribuiti qua e là nel testo, per ricostruire la trama e tentare di comprendere il messaggio nascosto.
Anche la traduzione non può che essere un tentativo. In questo caso, un tentativo piuttosto riuscito. Martina Testa cerca di avvicinarsi al linguaggio di questo autore, ma quello che ho davvero apprezzato va oltre la scelta delle parole. Il merito più grande è quello di aver assecondato le ossessioni linguistiche di Wallace (e dei suoi personaggi) e di averle trascritte sulla pagina del testo in italiano. Ha cioè riprodotto l’effetto. Per tradurre questo autore infatti, non bisogna essere troppo “tecnici”, ma occorre versatilità: ascoltare, cercare, e soprattutto dubitare sempre. Il risultato sarà certo approssimativo, i residui (ovvero quello che non si riesce a tradurre da una lingua a un altra) tanti e magari non si riuscirà nemmeno a conservare i rimandi (mi viene in mente quell’ ugly nel primo racconto, quando Faye e Julie sono al mare e parlano sulla spiaggia ,tradotto a volte con “schifo” un’altra con “pesante”) ma non è questo il punto. Wallace è difficile da tradurre proprio per questo: il suo inglese è polisemico, le sue parole hanno tante sfumature di significato, alcune difficili da capire. E bisogna quindi affidarsi ad alcuni strumenti, delle piccole note al testo, ad esempio. Martina Testa l’ha fatto e condivido questa sua scelta. Perchè le note invitano il lettore italiano a fermarsi e riflettere sulla differenza tra le due lingue. E quindi lo trasportano, per un attimo, in quel limbo linguistico in cui si muovono i traduttori.