Mosca – Petuški, Venedikt Erofeev
Pubblicato da Quodlibet edizioni, traduzione di Paolo Nori (2014)
«Uscito dalla stazione Savelskaja avevo bevuto per cominciare un bicchiere di vodka del Bisonte perché so per esperienza che, come decotto mattutino, il genere umano non ha ancora inventato niente di meglio.»
È venerdi, e Venička, in preda ai postumi dell’ennesima sbronza, esce dall’androne dove ha passato la notte e si dirige verso la stazione di Mosca per prendere il treno che lo porterà a Petuški dove, come ogni settimana, lo aspettano il figlio e l’amante, una prostituta vestita di bianco. Così inizia questo viaggio in cui, stazione dopo stazione, il protagonista si lascia andare in soliloqui e in riflessioni condivise con i compagni di viaggio: un vecchio con il nipote, il Baffonero, un giovane decabrista, e gli angeli che si scandalizzano ogni qual volta dalla sua bocca esce un turpiloquio.
Mosca-Petuški è stato uno dei libri più letti – come “samizdat”, ossia come opera edita in proprio e, quindi, clandestinamente – negli ultimi anni dell’era sovietica, ed Erofeev uno degli autori russi più importanti del Novecento. Questo poema ferroviario ripercorre gli stati di ebrezza del protagonista – alter ego dello stesso autore – e i suoi umori altalenanti, che vacillano a seconda del tasso alcolico, come dimostrano anche i grafici esplicativi che associano alcol e stati d’animo e che il protagonista si prende la briga di spiegare al lettore. È un passaggio costante dall’euforia agli ebbri deliri e all’insofferenza nei confronti tanto del genere umano quanto del lento, inesorabile declino del regime. E anche la scrittura segue a pieno questo dondolio: paratassi e ipotassi si alternano, così come la prosa e il lessico che arrivano persino a sfiorare l’assurdo, oltrepassando la correttezza logica e formale e creando una stratificazione di linguaggi degna di nota. Il lettore, quindi, si trova a tratti spaesato, non capisce se il protagonista è davvero sul treno per Petuški oppure se è tutto frutto della sua fantasia. Esiste davvero Petuški, o è solo la meta di un viaggio interiore e disordinato?
Tradurre il poema ferroviario di Erofeev vuol dire tener conto di moltissime cose: i riferimenti socio-politici in primis, quelli culturali, e poi la lingua, che è forse uno dei tratti più distintivi dello stile dell’autore. Paolo Nori, oltre ad aver curato gli aspetti che rimandano a una cultura altra (molto bella è anche la sua introduzione al poema), è riuscito a restituire al lettore italiano una lingua fresca, immediata, e mai banale. Ci sono alcuni aspetti, tuttavia, che mi sono balzati agli occhi – e alle orecchie – sin dalle prime pagine. Il primo è l’abbondanza di incisi e di virgole che non sempre si trovano nell’originale e che, a tratti, rallentano e infastidiscono la lettura; il secondo, invece, riguarda due verbi russi molto comuni che ricorrono in tutto il poema: “napivat’sja” (ubriacarsi) e “opohmeljat’sja” (smaltire una sbornia bevendo un altro bicchiere, con il rispettivo sostantivo che ne deriva, “pohmel’e/pohmeljuga”). In entrambi i casi, il traduttore è ricorso a due regionalismi, “inciclonarsi”/“prendere un ciclone” e “anticiclone”, caratteristici della zona di Parma. Essendo ben contestualizzati, questi due termini non fanno inciampare troppo il lettore – io, comunque, ho passato parecchio tempo su internet a cercare di capire da dove venissero -, ma l’utilizzo di regionalismi, così come del cosiddetto lessico familiare o delle variazioni diatopiche, forse diventa più efficace se utilizzato una tantum in un testo, specialmente se tradotto. Questo non perché le traduzioni devono essere standardizzate o “ipercorrette”: è giusto, anzi, doveroso, ricorrere alle variazioni dell’italiano per rendere determinate sfumature di un testo (si pensi alla lingua dei giovani, ad esempio), ma sempre, credo, nei limiti di una certa coerenza rispetto al testo di partenza.