Le più fortunate, di Julianne Pachico

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[eltdf_section_title position=”” title_tag=”h5″ title_font_weight=”” enable_separator=”no” title=”Pubblicato da Edizioni SUR, traduzione di Teresa Ciuffoletti (2018)”]

Non importa quanto le brucino gli occhi, le pizzichi il naso o le si intorpidisca la gola. Si accoccola in posizione fetale con il tucano di legno che le punge una coscia, i pezzi del puzzle attaccati al braccio, un mucchietto morbido di borse sotto la testa. Sdraiata sul paese incompleto le tira a sé, stringendole in un tenero abbraccio sussurrando paroline dolci.

Undici episodi ambientati tra New York e Cali per raccontare dieci anni di Storia colombiana, dal 1993 al 2003. Siamo nel pieno del Plan Colombia, un piano di intervento militare atto a contrastare il narcotraffico e la guerra civile. Stephanie, la Flaca, Betsy e Mariela si conoscono nel cortile della scuola che frequentano, una delle migliori del Paese. Sono ragazze apparentemente fortunate, figlie della classe privilegiata, che passano la loro infanzia tra ville e macchine di lusso, tra domestiche e autisti che le accompagnano ovunque. Si annoiano, fumano di nascosto, e assistono imperturbabili a quello che le circonda. Man mano che il tempo passa, però, si rendono conto che la vita che hanno sempre vissuto non è altro che una finzione, e che la realtà del loro Paese è fatta di altro. È fatta della cocaina nascosta in garage dai loro padri in giacca e cravatta, degli attentati, dei sequestri, delle squadre della morte, delle guerrillas. E soprattutto è fatta delle contraddizioni politiche e sociali da cui è molto difficile allontanarsi, e uscirne vivi.

Raccontare la Storia attraverso le storie dei personaggi è uno degli espedienti narrativi più potenti ed efficaci di sempre. Ed è questo che fa l’autrice di Le più fortunate, un romanzo corale che regala al lettore un punto di vista nuovo, fresco, accattivante. Un esordio ben riuscito, quello di Pachico, che riesce a domare sapientemente i salti temporali e a guidare il lettore attraverso l’infanzia, l’adolescenza e la maturità delle quattro protagoniste. I capitoli sono raccontati da diversi punti di vista, e hanno tutti uno stile diverso. La più tradizionale terza persona si alterna alla prima, passando per il tu narrativo del capitolo “Quella specie di uccello”, uno dei più intensi di tutto il libro. La focalizzazione è quasi sempre interna, questo a dimostrazione della grande capacità di Pachico di descrivere le emozioni dei suoi personaggi: sappiamo sempre cosa pensano, cosa provano, ci immedesimiamo, siamo lì con loro.

Siamo noi: Stephanie, la Flaca, Betsy, tutte noi insieme. Ce ne stiamo lì ferme a guardare, finché Mariela non si toglie la treccia di bocca e la lascia cadere. “Si è fatta l’ora”, dice mentre si allontana, lasciandoci a fare i conti con quella roba, con tutto, per il resto della nostra vita.

Non deve essere stato semplice tradurre la lingua di Pachico: le variazioni stilistiche, i salti temporali, i cambi di registro, di narratore, la contaminazione linguistica presente in tutto il testo. I lettori italiani hanno la fortuna di leggere The lucky ones (e una nota di merito va data anche alla traduzione del titolo, Le più fortunate) nella bella traduzione di Teresa Ciuffoletti, che ha rispettato fedelmente queste caratteristiche restituendoci una lingua fresca, immediata e spontanea che rispetta tutte le sfumature originali: l’angoscia, la tristezza, la rabbia, l’indifferenza. L’alternanza di paratassi e ipotassi di Pachico la ritroverete anche nella traduzione di Ciuffoletti, così come la ricercatezza dei termini e i riferimenti a una cultura altra, lontana – dalla parlata colorita dei personaggi ai piatti tipici colombiani, sempre presenti. A Teresa Ciuffoletti va il merito, quindi, di far sentire al lettore, sin dalle prime pagine, questa distanza storica, linguistica e culturale che il traduttore ha il dovere e l’onore di restituire al testo.

La Colombia ti piacerà un sacco, […] È un posto davvero speciale.

In che senso speciale?

Mah, sai. […] Speciale come una fidanzata con cui sai che non dovresti stare. […]. Sempre con la paura di “dar papaya”.

“Dar papaya?” […]

Non l’hai mai sentita questa espressione? […] Vuol dire: non dare agli altri l’occasione di fregarti. Più facile a dirsi che a farsi.

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