SALVARE LE OSSA, Jesmyn Ward
Pubblicato da NNeditore, 2018, Trad. di Monica Pareschi
Salvare le ossa è un libro forte e crudo fin dal suo titolo. Scritto dall’autrice statunitense Jesmyn Ward e pubblicato dalla casa editrice romana NNeditore, Salvare le ossa è il primo volume della trilogia di Bois Sauvage. Si tratta di un romanzo in dodici capitoli che corrispondono anche ai dodici giorni prima dell’arrivo di un’apocalisse senza precedenti: il violento uragano Katrina. Siamo a Bois Sauvage appunto, in Mississipi, in un piccolo avvallamento sperduto tra i boschi e le pinete chiamato la Fossa. Tra i rottami, le baracche e la depressione generale cominciamo a conoscere i personaggi. Una famiglia di afroamericani. Una famiglia senza una madre. Tre fratelli diversi tra loro, ognuno alle prese con il proprio tran tran quotidiano; un padre scontroso, sempre arrabbiato con tutto e con tutti, che si sfoga nell’alcool. E poi c’è Esch, l’unica donna in questo universo popolato da uomini. Esch che ama Manny come l’eroina greca del suo mito preferito, Medea. Presto scopre di essere incinta e si sente a volte due, a volte una e sola per via di questo amore proibito, carnale, impossibile. Ma l’uragano si avvicina e con lui le vite dei fratelli, che dai singoli interessi individuali (i pitbull per Skeetah, il baseball per Randall, le marachelle per il piccolo Junior, la gravidanza per Esch) convergeranno sempre di più verso un obiettivo comune, l’ultima speranza per riuscire a fronteggiare l’emergenza e a salvare la famiglia dal dramma di una catastrofe naturale che scuoterà tutti fin nelle viscere.
Ward non ama edulcorare con le parole, dice le cose come stanno e questo si riflette nella sua scrittura lucida, fisica ed estremamente conturbante. Le frasi si scaraventano addosso al lettore con la forza esplosiva di un airbag che attutisce l’impatto e protegge, ma allo stesso tempo frastorna e disorienta. Possiamo vedere il linguaggio di Ward, come strutturato su tre livelli stilistici: da un lato la lingua dolce e malinconica dei ricordi infantili quando Esch rievoca la madre, dall’altro la ferocia espressiva del presente quando affiorano le incertezze e le paure adolescenziali di Esch che guarda in faccia la dura e squallida realtà della sua vita quotidiana. Infine ci sono i movimenti dei personaggi, le fughe nel bosco ad esempio, in cui l’autrice ci fa sentire il profumo resinoso degli aghi di pino e ci fa vedere i rami degli alberi oscillare nelle raffiche di vento. Ed ecco lo stile immaginifico quasi ipnotico che mescola il mito con la poesia lirica.
La traduttrice del libro, Monica Pareschi, ha svolto un lavoro davvero scrupoloso, mimetico. Ha infatti cercato di aderire il più possibile al ritmo – e di conseguenza anche alla lingua – incalzante, drammatica dell’autrice. Nella nota del traduttore Monica Pareschi contestualizza il proprio lavoro di traduzione a partire da una linea di scrittura tipica della letteratura americana odierna: il minimalismo, in cui “a un minimo di trama e a una programmatica povertà esperienziale dei personaggi corrisponde un impiego volutamente sobrio dei mezzi espressivi […]”. Alla luce di queste parole quindi, dobbiamo riconoscerle il merito di aver realizzato una traduzione che ben riproduce la distanza dall’estetica minimalista, e che si rivela il più possibile rispettosa della lingua di Ward nel restituire la stessa crudezza e la stessa eleganza espressiva dell’autrice. L’effetto principale della traduzione di Pareschi è quello di avvicinare i lettori alle vicende dei personaggi, alla fatiscenza del luogo in cui vivono e alla loro identità “altra” in quanto afroamericani, appartenenti «a un tessuto comunitario a tratti danneggiato, ma sempre resistente».